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18/01/2017

La Direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici ha inteso uniformare a livello europeo l’utilizzo del modello animale nella ricerca biomedica. Tuttavia, l’Italia, in fase di recepimento di tale direttiva, ha introdotto con il Decreto legislativo 26/2014 una disciplina molto più restrittiva di quella europea che ha inteso trasporre, prevedendo in particolare il divieto di utilizzo di animali per le ricerche su xenotrapianti, per quelle su sostanze d’abuso, per le esercitazioni didattiche di laboratorio dei futuri ricercatori (biologi, farmacisti, CTF, biotecnologi), nonché il divieto di allevamento (ma non di utilizzo) sul territorio italiano di cani, gatti e primati. Dopo una prima valutazione da parte della Commissione Europea, tali difformità sono state oggetto, il 28 aprile 2016, di una messa in mora dello Stato italiano, quale primo step del procedimento di infrazione. La moratoria di tre anni per l’entrata in vigore dei suddetti divieti, in scadenza il prossimo 31 dicembre, ha consentito fino ad ora la prosecuzione delle attività di ricerca, pur pregiudicando la possibilità di accedere a bandi e finanziamenti europei su base pluriennale. Al contrario, dal 1 gennaio 2017, non e’ più possibile effettuare questi studi di fondamentale importanza, per i quali non vi sono ad oggi metodologie alternative utilizzabili. In considerazione dello stato attuale delle conoscenze scientifiche, infatti, l’uso di animali in numerose procedure scientifiche è ancora l’unico modello in grado di fornire risultati affidabili. Questa normativa, quindi, rischia di mettere a rischio la possibilità per i ricercatori italiani di competere ad eguali condizioni con i colleghi europei, e si tradurrà infatti in un danno inestimabile per l’intero comparto della ricerca biomedica italiana, sia per quanto riguarda quella pubblica, già messa in difficoltà dalla scarsità dei fondi ad essa destinati, sia perché costituirà un freno alla crescita di un settore quale è il comparto farmaceutico, che con le sue molte eccellenze – dalle risorse umane ai centri di ricerca, dall’indotto alla filiera – può davvero diventare un hub europeo d’avanguardia. Tali divieti, pertanto, non solo contravvengono al principio dell’uniformazione legislativa tra le nazioni europee come base per la collaborazione internazionale, ma si traducono in un danno economico, culturale e di immagine per il nostro paese. A tal riguardo, le strade percorribili per scongiurare il rischio di una drastica diminuzione della capacità di ricerca del nostro Paese nel contesto internazionali potrebbero essere:
1. Una modifica sostanziale del D.Lvo 26/2014, che risulta tuttavia di difficile percorribilità, in particolare a causa della mancanza di un veicolo procedurale all’interno del Parlamento che possa agilmente correggere le norme oggetto di attenzione;
2. Una proroga della moratoria sui divieti di ulteriori 3-5 anni che consenta ai nostri scienziati di agire in un quadro normativo stabile e che garantisca loro la possibilità di partecipare a bandi europei ed extraeuropei.
Affrontare questo tema è importante, perché rappresenta un asset fondamentale per il futuro del Paese. Il valore della ricerca scientifica di base nel settore delle scienze della vita, in Italia, è molto alto: lo testimoniano il numero e la qualità delle pubblicazioni dei nostri ricercatori. Lo sforzo del Governo nel potenziare gli investimenti soprattutto in ricerca di base, necessita anche di un ambiente favorevole. In questo senso la revisione della normativa è fondamentale prima che sia troppo tardi.

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